Finanza Pubblica e Spesa Sociale

8 settembre 2011 § Lascia un commento

Forse non tutti sanno che, andando sul sito di Eurostat, è possibile farsi una scorpacciata di dati statistici sui Paesi del Vecchio Continente. Dati che entrano immancabilmente nei rapporti Istat per consentire un confronto tra la realtà italiana e quella europea.

Mi sono concentrato sul confronto tra i dati generali dell’economia di alcuni paesi e la relativa spesa sociale: li ho messi in riga è ho realizzato i grafici che si possono vedere cliccando sul link di seguito riportato: Finanza pubblica e spesa sociale.

A girare e rigirare i dati, senza voler entrare nella specificità di paesi come l’Italia, si scoprono alcune vecchie verità che oggi sembrano dimenticate:

  1. il volume del prodotto interno lordo (anche pro capite) e la relativa salute della finanza pubblica, sembrano sempre proporzionali alla spesa pubblica sociale (trovate anche la spesa statale complessiva).
  2. le economie che hanno una crescita maggiore e PIL più importanti (Germania, Francia, ecc.) hanno anche una qualità della spesa sociale notevolmente differente rispetto a quella dei paesi meno virtuosi.

Il primo punto, almeno fino a quando non è diventata una parolaccia la parola “socialdemocrazia”, è stato il cavallo di battaglia delle classi politiche del XX secolo: la spesa sociale funziona con la ricchezza di una nazione come una diga opera sull’acqua di un fiume. Essa, in sostanza, distribuendo in maniera diffusa la ricchezza aumenta la capacità di spesa dei soggetti trasformandosi automaticamente in “risparmio indiretto” e, conseguentemente, investimento (altrettanto vecchia legge dell’economia). Se la spesa sociale non esistesse, con ogni probabilità, gli stipendi dei soggetti si disperderebbero verso generi di prima necessità e genererebbero un numero inferiore di risparmi.

Il secondo punto, messo in luce anche dall’Istat a più riprese, è la qualità della spesa: l’Italia spende troppo sul fronte delle pensioni e poco sugli altri capitoli dell’assistenza sociale (nei miei grafici ho inserito anche la spesa scolastica, normalmente non considerata). Le pensioni sono, sostanzialmente, un’entrata singola per il soggetto e non costituiscono un’integrazione del reddito. Di conseguenza non migliorano la condizione dei soggetti, ma la sorreggono, e non determinano un maggiore risparmio e maggiori volumi di spesa personale. Grecia, Italia e Portogallo hanno volumi pensionistici notevoli, con alti debiti pubblici e PIL in sofferenza. A questo dato l’Italia assomma anche dati vergognosi sulla spesa per disoccupazione, scuola, famiglia e abitazioni. Se a questo si somma che la spesa per la salute è drenata dalla corruzione, il quadro che se ne deriva è decisamente pesante, e spiega, più di ogni altra cosa, la drammatica situazione che viviamo.

Per concludere: a guardare i numeri pare che l’unica via di scampo, sicura e duratura, per far crescere i paesi sia stabilizzare, aumentare e qualificare la spesa sociale. Tutto il contrario di quello che chiede la simpatica compagnia delle Istituzioni Internazionali.

P.s.: i dati elaborati sono sul 2008. Sono i più stabili e risentono solo parzialmente della crisi economica che ha scombinato i meccanismi “normali” della finanza pubblica.

Crisi, debito e speculazione: una sintesi

10 agosto 2011 § Lascia un commento

Per riassumere i concetti espressi nei miei due precedenti post (O la borsa o la vita e Bisogna pagare il debito?) ho tentato una sintesi grafica della spirale della follia innestata, indifferentemente, dalla speculazione, dall’attuale meccanismo del debito e dalla messa in campo di politiche neoliberali.

Interazione tra debito, speculazione, deregulation e applicazione delle politiche neoliberali.

O la borsa o la vita

9 agosto 2011 § 1 Commento

[Libera traduzione dell’articolo di Damien Millet ed Eric Toussaint apparso su Le Monde Diplomatique di Luglio 2011]

Un tempo c’era il “primo mondo”, il “Nord” considerato come la parte prospera del pianeta; il “secondo mondo”, quello dei paesi sovietici; infine il “terzo”, che raggruppava i paesi poveri del “sud”, sottomessi, dagli anni ’80 in poi, ai diktat del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Il secondo si è dissolto agli inizi degli anni ’90 con la fine dell’URSS. Con la crisi del 2009 il primo mondo si è rovesciato. E così nessuna divisione geografica sembra davvero pertinente. Non si distinguono che due categorie di popolazione: il pugno di quanti approfittano del capitalismo contemporaneo e la maggioranza, che lo subiscono. Di norma attraverso il meccanismo del debito.

Nel corso degli ultimi 30 anni gli anelli deboli dell’economia mondiale si trovavano in America Latina, in Asia o noi paesi in transizione post sovietica. Dal 2008 anche l’Unione Europea suscita qualche preoccupazione. Mente il debito estero totale dei paesi dell’America Latina raggiunge in media il 23% del PIL (fine 2009), esso si attesta al 155% in Germania, al 187% in Spagna, al 191% in Grecia, al 205% in Francia, al 245% in Portogallo e al 1.137% in Irlanda. Cose mai viste!

Contrariamente agli Stati Uniti che possono abbeverarsi di liquidità attraverso la Federal Reserve, di solito attraverso la scappatoia della creazione di moneta, i paesi dell’Eurozona non hanno questo strumento: lo statuto della BCE impedisce il finanziamento diretto degli Stati. Così. Mentre tra il 2007 e il 2009 si mobilitano per salvare le banche – per un montante totale di 1.200 miliardi di euro in impegni diretti e garanzie accessorie – il loro finanziamento dipende esclusivamente dagli investitori istituzionali: essenzialmente fondi pensione, compagnie di assicurazione e banche private.

Una delle conseguenze inattese della crisi è stata di consentire ai banchieri dell’Europa occidentale, di norma francesi e tedeschi, di utilizzare i fondi che gli erano stati prestati dalla BCE e dalla Federal Reserve per aumentare, tra il 2007 e il 2009, la loro esposizione in parecchi paesi (Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo) realizzando enormi profitti. Tra giugno 2007 (inizio della crisi dei subprime) e settembre 2008 (fallimento di Lehman Brothers), i prestiti delle banche private europee occidentali alla Grecia sono saliti del 33% passando da 120 a 160 miliardi di Euro.

Nella primavera 2010, mentre le turbolenze spazzano la zona Euro, la BCE presta al tasso vantaggioso dell’1% alle banche private. Queste ultime, per tutta risposta, esigono da Paesi come la Grecia una remunerazione ben superiore: dal 4% al 5% per un prestito a 3 mesi, circa il 12% per un prestito a 10 anni. La giustificazione di queste cifre? Il rischio “default” che pesa sulla testa di questi paesi. Una minaccia così incombente che i tassi aumentano ulteriormente: a maggio 2011 il tasso a 10 anni passa al 16,5%. Parallelamente, con l’intento di “rendere fluido” il mercato dei debiti sovrani, la BCE garantisce ormai i crediti detenuti dalle banche private ricomperando i Titoli di Stato… che si è impedita di acquistare direttamente.

È proprio necessario tenere in piedi una tale impalcatura? Innanzitutto, se le banche esigono una remunerazione considerando il “rischio default” non sarebbe coerente affrontare una sospensione dei pagamenti, o, in alternativa, denunciare l’illegittimità di tali comportamenti? Generalmente, invocare uno scenario simile vuol dire scatenare l’evocazione di scenari di caos: uno “scenario dell’orrore”, come l’ha definito M. Christian Noyer, governatore della Banca di Francia[1]. Ma dal punto di vista delle popolazione, non sarebbe più corretto definire “scenario dell’orrore” la messa in atto di quelle politiche di austerità necessarie al pagamento del debito stesso?

Un analista poco sospetto di avere fantasie terzomondiste, Henry Kissinger, ex segretario di Stato americano, ha affermato nel 1989, parlando dei piani di austerità imposti ai paesi sudamericani: «nessun governo democratico può sopportare l’austerità prolungata e la compressione del budget per i servizi sociali attualmente richiesta dalle istituzioni internazionali»[2]. Questo ragionamento è rafforzato dal fatto che i vecchi debiti, essendo in parte coperti da nuove emissioni, non smettono mai di crescere: nel 2009 i Governi dei paesi in via di sviluppo avevano rimborsato l’equivalente di 98 volte il debito contratto nel 1970. Nel frattempo il loro debito si era moltiplicato di 30 volte.

È su questa via che i governi europei indirizzano la loro popolazione rifiutandosi di attivare le leve politiche che permetterebbero di cambiare la traiettoria. Un’altra soluzione si apre per il nord e per il sud. Nel corso degli ultimi anni alcuni paesi hanno scelto di sospendere i pagamenti o di annullare una parte del proprio debito: l’Argentina nel 2001 (grazie ad una sospensione dei rimborsi per 3 anni ha imposto ai propri creditori privati una riduzione di più della metà del debito) e più recentemente l’Ecuador. E tutto senza che si scatenasse il caos: «Tanto la teoria quanto la pratica suggeriscono che la minaccia di una chiusura dei rubinetti è stata probabilmente esagerata»[3], ne ha concluso Joseph Stiglitz, economista a capo della Banca Mondiale tra il 1997 e il 2000. Dal 2003 al 2010 l’Argentina ha registrato un tasso medio di crescita annuo superiore all’8%. La sospensione dei pagamenti non determina necessariamente il cataclisma preconizzato dalle Cassandre del debito. Può essere che un tale atteggiamento sia addirittura legittimo??

Per essere legato ad un prestito c’è bisogno che uno Stato presti il suo consenso liberamente. Da questo consenso nasce l’obbligo al rimborso del debito stesso. Tuttavia questo principio non è assoluto. È assoggettato ai dettami del diritto internazionale. L’articolo 103 della Carta delle Nazioni Unite proclama: «In caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai Membri delle Nazioni Unite con il presente Statuto e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale prevarranno gli obblighi derivanti dal presente Statuto. »[4] Tra tali obblighi, all’articolo 55 della carta, si rileva il presente «[favorire]un più elevato tenore di vita, il pieno impiego della mano d’opera, e condizioni di progresso e di sviluppo economico e sociale;».

I “piani di aiuto” concessi dalla Commissione Europea, la BCE e l’FMI ai paesi in difficoltà (volti a consentirgli di rimborsare i creditori) vanno in questa direzione? Nel 2009 la Lettonia ha visto imporsi una riduzione delle spese pubbliche equivalente al 15% del PIL, una diminuzione dei salari dei funzionari pubblici del 20%, una riduzione del montante delle pensioni del 10% (poi giudicata anticostituzionale), la chiusura di scuole ed ospedali. Nel 1980 la International Law Commission dell’ONU proclamava «Una Nazione non potrebbe, per esempio, chiudere le scuole, le sue università e i suoi tribunali, eliminare la polizia e non interessarsi ai servizi pubblici fino al punto di esporre la popolazione al disordine e all’anarchia, semplicemente al fine di disporre dei fondi per far fronte all’obbligazioni contratte con i creditori internazionali»[5].

La Convenzione di Vienna del 1986, che completa quella del 1969 sul diritto dei Trattati[6] identifica i differenti vizi di consenso che possono portare alla nullità di un contratto di prestito. All’articolo 49 che tratta del “dolo” si legge: «Se uno Stato è stato indotto a concludere un trattato dal comportamento fraudolento di un altro Stato che ha partecipato al negoziato, può invocare il dolo come vizio del suo consenso a vincolarsi al trattato.»[7]. Non potremmo considerare doloso e fraudolento il comportamento dell’FMI considerando la distanza abissale tra i suoi dettami e la realtà dei fatti? L’articolo 1 comma 2 dello Statuto del Fondo gli impone quale obiettivo di «facilitare l’espansione e la crescita equilibrata del commercio internazionale e contribuire così ad istaurare e mantenere elevati livelli di occupazione e di reddito reale e a sviluppare le risorse produttive di tutti gli Stati membri, obiettivi principali della politica economica». Aumento della disoccupazione, crollo dei redditi, privatizzazioni: le misure imposte da tale istituzione portano troppo spesso a tutt’altro risultato. Possiamo infine considerare “libero consenso di uno Stato” quello ottenuto sotto il tiro incrociato della Commissione Europea e dell’FMI?

È lunga la vista di argomenti suscettibili di giustificare una sospensione dei pagamenti e di denunciare la pura e semplice illegittimità di tali debiti. Dopo qualche mese, questa opzione si impone per la sua evidenza. Anche tra gli speculatori: alla fine di giugno, secondo Morgan Stanley e JP Morgan, i mercati stimavano un rischio di default della Grecia all’86% contro il 50% in aprile.

Il fenomeno non è sfuggito ai banchieri. Spaventati dall’idea di vedersi imposto uno spostamento dei pagamenti o una riduzione del valore dei crediti (nel quadro di una rinegoziazione difesa da Berlino) nel 2010 le banche Francesi hanno diminuito la loro esposizione sul debito sovrano geco passando da 19 a 10 miliardi di Euro. Le banche tedesche hanno fatto la stessa cosa: la loro esposizione è passata da 16 a 10 miliardi di Euro. Surrettiziamente, istituzioni pubbliche come l’FMI o la BCE e i governi europei si sostituiscono agli investitori privati. La BCE detiene 66 miliardi di euro di titoli greci (il 20% del totale del debito); FMI e Governi europei sono arrivati attualmente a 33,3 miliardi. Stesso processo si sta verificando in Irlanda e Portogallo. «Vuol dire che in caso di ristrutturazione saranno i contribuenti – al posto degli investitori privai – che pagheranno il conto» ha chiosato il New York Times[8].


[1] Citato da Ingrid Melander e Paul Taylor, «Mises en garde sur un possible reprofilage de la dette greque», Reuters, 24 maggio 2011; http://fr.reuters.com/article/businessNews/idFRPAE74N0BG20110524 .

[2] Citato da Miguel Angel Espeche Gil, «La doctrina Espeche. Illicitud del alza unilateral de lor sintereses de la deuda externa», Instituto hispano-luso-americano de derecho internacional, 15° congrsso, 23-29 aprile 1989, Santo Domingo (Repubblica Dominicana); http://www.derecho.uba.ar/institucional/proyectos/dext_espeche.pdf

[5] Annuario della International Law Commission (http://www.un.org/law/ilc/index.htm), 1980, p. 24 «It will then have to rank its obligations and make provisions for those which are of a more vital interest first. A State cannot, for example, be expected to close its schools and universities and its courts, to disband its police force and to neglect its public services to such an extent as to expose its community to chaos and anarchy merely to provide the money wherewith to meet its moneylenders, foreign* or national. There are limits to what may be reasonably expected of a State*… » http://untreaty.un.org/ilc/publications/yearbooks/Ybkvolumes(e)/ILC_1980_v2_p1_e.pdf

[6] La convenzione del 1969 è entrata in vigore nel 1980. Quella del 1986 è in corso di ratifica.

[8] Landon Thomas Jr. «In Greece, some see a new Lehman», The New York Times, 12 Giugno 2011; http://www.nytimes.com/2011/06/13/business/global/13euro.html?pagewanted=all

Di seguito si riportano i documenti citati in pdf.:

O a tutti o a nessuno…

8 agosto 2011 § 1 Commento

La Nazione si raccoglie oggi in religiosa attesa della riunione del Consiglio dei Ministri nella quale Tremonti chiarirà chi dovrà pagare la manovra che ci è stata imposta per evitare la catasfrofe finanziaria. La suspence sta tutta nel capire quali e quanti sacrifici ci si richiederanno, dove, per “ci” intendo i soliti noti, ovvero i cittadini affetti da un’inguaribile sindrome dell’ortolano.

Stamattina è iniziata la battaglia ideologica e non poteva essere altrimenti: Sacconi ha già anticipato che quale che sia la riforma del mercato del lavoro che sarà messa in atto, essa ricalcherà le indicazioni del prof. Marco Biagi. Ovviamente, il riferimento al giuslavorista ucciso dalle BR equivale a dire: «state attenti!!! se vi opponete siete come le BR». Poco importa che Sacconi non abbia letto mezza riga di quello che scriveva Biagi.

Nel frattempo il Corriere (salvo pubblicare il solito ottimo articolo di Rizzo e Stella) ha avviato il tito al bersaglio sulle pensioni. Il tono è simile a quello del chirurgo che sta per amputarti una gamba: «Lo so! fa male ma non si può fare altrimenti».

Già nelle scorse settimane, infine, Tremonti & Co. avevano annunciato l’eliminazione di qualsivoglia agevolazione fiscale. Anche quelle poche che consentivano di risparmiare qualche lira sulla salute o sull’educazione dei figli. Per non parlare dei minimi sgravi che si davano alle imprese per investire un po’.

Insomma. Facciamo il punto: a chi tocca? Tocca a chi lavora. E basta. Non una parola sui privilegi. E non parlo della Casta perché siam stanchi e perché ne viene giusto qualche spicciolo. Faccio un elenco (incomleto) delle categorie che potrebbero pagare adesso per quello che non hanno dato mai:

  • Gli ordini professionali iperprotetti (i notai, gli avvocati, gli architetti, i dentisti, ecc.), per i quali potrebbe essere anche l’ora di liberalizzare del tutto la professione per dare accesso ai ragazzi con una laurea in tasca;
  • Gli sciacalli palazzinari nelle nostre città; quelli che hanno come professione il giro delle case alla fine del mese per riscuotere gli affitti;
  • Le grandi fortune finanziarie, quelle che non producono un posto di lavoro che è uno e che si alimentano standosene comodamente seduti a casa a sniffare cocaina;
  • La chiesa Cattolica, alla quale paghiamo praticamente tutto, dal restauro delle chiese, allo stipendio dei parroci, alle ore di religione; la Chiesa Cattolica che non paga l’ICI nemmeno sugli alberghi;
  • Gli evasori che hanno riportato i soldi in italia con il regalo di Tremonti: sappiamo chi sono, sappiamo dove sono, dobbiamo solo espropriarne le fortune che nulla hanno dato alle casse dello Stato;
  • Gli evasori tout court, che qualunque cittadino saprebbe stanare in cinque minuti.

Ovviamente l’elenco è incompleto. Si potrebbe completarlo e mandarlo a Tremonti prima del pomeriggio. Chissà che non ci faccia una pensata.

E ovviamente, parallelamente, si potrebbero iniziare ad innalzare le barricate. Perché in Europa siamo gli unici ad essere in ferie da una vita…

Bisogna pagare il debito?

4 agosto 2011 § Lascia un commento

Da qualche tempo nei circuiti alternativi della stampa internazionale si parla di un tema scottante, e come al solito se ne parla in un’ottica sconosciuta al ristretto panorama delle riflessioni italiane. Il tema, importantissimo, è: il debito pubblico. La domanda che si pone da più parti è la seguente: bisogna pagare il debito?

L’analisi condotta sulla storia del debito, sull’articolazione delle leggi internazionali in materia, sulle opportunità politiche connesse ai pagamenti del debito, sulle conseguenze che il pagamento comporta sulle politiche sociali porta a rispondere un No articolato a questa domanda. Risposta che qui nella penisola non si è mai sentita.

Quali sono i presupposti di questo NO e perché non dovremmo temerlo? Provo a riassumere nella speranza di riuscire a produrre un po’ di letteratura nei prossimi giorni:

  1. Perché dal punto di vista delle politiche del debito quest’ultimo è diventato effettivamente insostenibile solo da quando le istituzioni finanziarie internazionali (FMI, Banca Mondiale, Unione Europea, ecc.) si sono svincolate del tutto dalla politica; in quel momento il potere tecnico di queste istituzioni ha eliminato la capacità dello stato di gestire in maniera flessibile la politica monetaria. Prova ne sia che gli Stati Uniti, che questa politica la controllano per intero, possono indebitarsi per legge senza dover rendere conto a nessuno.
  2. Perché il debito è finito in tutto o in parte in mano a speculatori internazionali, soggetti assolutamente fuori controllo che nella maggior parte dei casi vogliono un ritorno immediato dell’investimento e che strozzano, di conseguenza, le politiche sociali. Tale ordine mentale ed economico è necessariamente estraneo alla lungimiranza necessaria di un governo politico.
  3. Perché, fino a qualche tempo fa, la politica era sempre più potente della speculazione: nell’era mercantile e per secoli, se uno Stato aveva un indebitamento eccessivo semplicemente cessava i pagamenti e, quando le cose buttavano male, eliminavano “fisicamente” i soggetti presso i quali il debito era stato contratto. Ci fu un momento in cui i Medici, i Fugger, i dogi veneziani semplicemente non furono più pagati, con buona pace della carta bollata (sarebbe stato complicato per Firenze invadere la Francia…).
  4. Dal punto 3 ne deriva un altro, fondamentale. Il debitore e il creditore sono strettamente legati e lo sono al crescere dell’indebitamento e del ruolo del debitore. Se l’Italia o la Spagna non resitituissero il debito andrebbero a gambe all’aria parecchie banche ed istituiti di credito perché i debiti di tali Stati sono enormi anche per una banca multinazionale.
  5. Perché, se le politiche restitittive necessarie al pagamento del debito stritolano lo stato sociale e costringono ad un impoverimento collettivo e, di conseguenza, al mancato rispetto del patto sociale stesso, scattano una serie di norme internazionali che, semplicemente, considerano il debito illegittimo. Illegittimo per legge. Sembrerà strano ma è così: secondo le Nazioni Unite se il pagamento del debito elimina i diritti umani sono i secondi a prevalere e non il primo.
  6. Perché le politiche di pagamento del debito creano un circolo vizioso recessivo che aumentano il debito stesso e riducono la possibilità di pagarlo. É quello che accade ad un’azienda che cade in mano agli strozzini. Di norma fallisce.
  7. Perché, e mi rifaccio al punto 6, se sei caduto in mano agli strozzini non metti le mani al portafogli, ma chiami la Polizia e fai arrestare lo strozzino. Semplice, mi sembra.

Ovviamente la questione non è così semplice e c’è debito e debito. Di norma il debito al piccolo risparmiatore va rimesso. Quello verso gli speculatori non va annullato, ma va semplicemente dilazionato e reso più sopportabile.

La conseguenza è che, eliminati gli interessi sul debito l’economia ne riceve un’immediata iniezione di liquidità che consente di far ripartire la macchina e… di pagare il debito dilazionato con più tranquillità. Alla fine della guerra Inglesi ed Americani erano fortemente indebitati, ma potendo gestire la svalutazione monetaria e con una crescita economica sostenuta, pagarono cifre risibili rispetto all’incidenza percentuale del debito di guerra contratto. Se ne deduce che già l’eliminazione dei vincoli imposti dal neoliberismo imperante sarebbero una panacea. Ma anche la semplice dilazione risolve parecchie questioni: Argentina e Bolivia, dopo il crack, decisero di dilazionare. Con la sola dilazione l’Argentina è cresciuta dell’8% annuo. E non c’è stato il temuto effetto caos che tutti paventano.

Non basta? Siamo davvero così pazzi da pagare sull’unghia?
… continua …

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