Se se ne va un Laureato

22 novembre 2011 § Lascia un commento

Un lunedì del mese scorso (il 20 ottobre 2011) S. è partito. S. è nato in Bangladesh da una famiglia sicuramente più agiata della media, il padre lavora in edilizia in uno dei paesi del Golfo Persico: è una di quelle braccia povere che costruiscono i mega grattacieli che, fino a qualche mese fa, davano lustro alla miriade di parassiti del petrolio.

S. è un ragazzo alto e scuro (un po’ più degli altri), simpatico, spigliato, occidentalizzato. Arrivato in Italia meno di 5 anni fa, era laureato in informatica al suo paese quando si è ritrovato, numero tra i numeri, nella miriade di immigrati che costituiscono l’ossatura della produzione del nostro Paese. Da laureato, e forte della posizione del padre, ha speso un po’ di tempo ad imparare l’italiano e ad ambientarsi in italia prima di iniziare a lavorare. Fino a quando il padre non lo ha messo alle strette e lo ha costretto a darsi da fare.

Credo abbia fatto di tutto e non posso dire molto sulle sue professioni. Di sicuro ha lavorato nei cantieri navali, a Genova, Ancona, Trieste, Barcellona, Amburgo: verniciature, rifiniture, legni e tappezzerie. Nei tempi morti ha affiancato un suo amico nella conduzione di un piccolo call center al nostro quartiere, tirandolo a lucido e tenendolo sempre in ordine.

Qualche settimana fa ci disse che stava per partire. Per Barcellona, cantieri navali. Ci ha spiegato che la cantieristica in Italia è morta e che si lavora solo all’estero. Mi disse anche che è un peccato, perché qui si sta bene.

Io l’ho conosciuto in palestra, facciamo insieme prepugilistica (o qualcosa di simile). S. è la nostra “tigre del Bengala“. Prima che partisse abbiamo organizzato una cena a casa per salutarlo e solo all’ultimo momento abbiamo scoperto una verità su questo laureato: è anche un imprenditore. Ha una piccola società di finiture per le barche. Quando c’è un grosso lavoro mette insieme la squadra di lavoratori specializzati e parte, ovunque ce ne sia bisogno. Stavolta è Barcellona, domani non si sa.

S. ama questo paese. Ovunque  il lavoro lo chiami torna sempre qui. S. ha aperto la sua società qui, in Italia, perché questo paese gli piace, gli piacciono le persone, il clima, il nostro modo di vivere e di convivere. Solo che l’Italia sta morendo anche per lui, per il suo mestiere e per la sua professionalità. L’Italia sta morendo anche per la sua voglia di fare. Ed è un peccato. Questo paese non è molto capace di attirare le persone per la propria cultura, di solito tira braccia, sudore, lavoro. S. è uno che ha sia la prima che i secondi, speriamo non decida di andare via.

Torna presto S.

Notti londinesi

9 agosto 2011 § Lascia un commento

http://www.corriere.it/esteri/11_agosto_09/londra-scontri-ovunque_83b30186-c247-11e0-80c8-eb6607a7b6a7.shtml

“Che roba contessa, all’industria di Aldo
han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti;
volevano avere i salari aumentati,
gridavano, pensi, di esser sfruttati.
E quando è arrivata la polizia
quei pazzi straccioni han gridato più forte,
di sangue han sporcato il cortile e le porte,
chissa quanto tempo ci vorrà per pulire…”.

1 a 0

5 luglio 2011 § Lascia un commento

TTS è un signore di 43 anni. Eritreo. Vive in Italia dal 1992, è arrivato qui in aereo con un visto turistico. Poi è restato perché innamorato di questa penisola di cui, a casa sua, si favoleggiava. Il padre, scomparso troppro presto e troppo distratto alla famiglia da una seconda donna prima e da un male incurabile poi. TTS, costretto dalle vicissitudini a campare una madre, una sorella e un fratello più piccoli è partito per l’Italia quando già conosceva la pasta, qualche parola di italiano, la guerra e la povertà del suo paese. Mi raccontava che quando c’era la guerra civile contro l’Etiopia il padre comperava sacchi da 50 chili di riso e a casa sua non si mangiava altro permesi: è da allora che il riso non lo sopporta e non lo assaggia, se non per far piacere ai suoi amici ai quali porta un rispetto che gli impedisce, spesso, di dire la verità.

TTS ha iniziato a lavorare da subito: L’Aquila, Pistoia, Roma, dove si è fermato. Giovane, giovanissimo, ha approfittato della sua vita indipendente per divertirsi, arricchirsi un po’, volare di fiore in fiore finché le cose andavano. Ha lavorato da operaio, da magazziniere, da lavatore di auto. Ha vissuto in scantinati un po’ rabberciati e anche ai Parioli, in una di quelle case seminterrate che la classe ricca riserva alla servitù e ai portieri. Però un giorno è arrivata la crisi, per la sua azienda e per sè e le cose hanno iniziato a girare male. Solo in quel momento si è accorto di essere stato fottututo da sempre. Dopo 10 anni di permanenza in Italia, senza essere stato fermato nemmeno una volta dalle forze dell’ordine, si è ritrovato senza lavoro e ha scoperto che chi lo assumeva, al quale aveva dedicato tanta fatica e anche una grossa dose di affetto, lo aveva tenuto in bilico con un contratto stagionale scaduto il quale sarebbe venuta meno anche la copertura del permesso di soggiorno: in 6 mesi.

Per tutto questo TTS non è innocente. Avrebbe dovuto sicuramente salvaguardare meglio i suoi interessi: fidarsi meno. Ma ormai la frittata era fatta. Quando abbiamo saputo questa cosa è iniziata la guerra. Lo abbiamo assunto come nostro “colf”, abbiamo iniziato la sanatoria, abbiamo pagato fior di tasse, prodotto miriadi di documenti per i quali, di volta in volta, erano necessari nuovi bolli e nuovi pagamenti. Abbiamo fatto file infinite e incontrato persone gentili e meno gentili schiacciate anch’esse da una procedura pensata, creata e messa in opera affinché gli immigrati fossero sempre, comunque ricattabili (per un pezzo di carta mancante, per una firma illegibile, per qualunque cazzata). Un tritacarne in piena regola, relegato in sporche periferie e uffici squallidi.

Abbiamo combattuto per un anno e mezzo, supportati dalla buona volontà di tanta gente e dalla solidarietà di tutti. Un popolo, il nosto, sempre in contraddizione con se stesso e con il potere che lo regola. Un popolo che se vede il “negro” in tv lo odia e se lo conosce personalmente è sempre pronto a dire “ma lui è diverso dagli altri”.

Alla fine abbiamo vinto. 1 a 0 per noi. Noi intesi come tanti e tanti che hanno lavorato e speso tempo e denaro per un rettangolo di plastica formato bancomat. Un rettangolo che rappresenta tutto, che, a peso, vale le braccia e le gambe di ciascuno degli immigrati che lo portano in tasca. Che è la cifra di quanto poco siamo disposti a pagare per tutti quelli che ogni mattina puliscono il culo della nostra società. Un rettangolo che è come un pannicello caldo sulla nostra ipocrisia di poveri borghesucci ingrigiti dal benessere.

Eppure TTS ha attraversato il mare per venire qui. Ha fatto un salto, culturale, morale ed economico che nessuno di noi ha mai avuto il coraggio di fare. Solo per questo meriterebbe rispetto: perché ha tante storie da raccontare!

Il Clima

16 dicembre 2009 § Lascia un commento

Uno dei principi dello stato, in tutte le sue forme, è l’esercizio centralizzato della violenza. Violenza che viene, di conseguenza, accentrata nello stato e vietata ai cittadini nella risoluzione dei conflitti. Ne deriva una pacificazione dei rapporti individuali a favore della convivenza delle persone e del mantenimento dell’ordine. In sostanza lo Stato si riserva di punire e sanzionare “al posto del” cittadino comune.
Ma che stato è quello dove la violenza viene unilateralmente esercitata? Che stato è quello nel quale la violenza, comunque agita da soggetti singoli nell’espletamento delle proprie funzioni collettive, non è regolata?
I vecchi socialisti avrebbero risposto che è uno stato da abbattere. E forse siamo in questo stato di cose.
Sono anni che si ripetono episodi di violenza, fisica e morale, sui cittadini e sulle loro libertà, sulle associazioni, come sullle loro manifestazioni.

Violenza era quella di Genova, che ha visto le nostre forze dell’ordine macchiarsi di tali e tante infamie da essere considerate simili a quelle dei peggiori paesi dittatoriali del mondo. Violenza in strada, contro i manifestanti pacifici e contro quelli violenti, violenza quella a Bolzaneto, contro ragazzi inginocchiati e costretti a cantare cori fascisti, violenza quella alla Diaz, di notte, senza preavviso.
Violenza è quella esercitata ogni giorno sugli immigrati, per i quali sono state fatte “leggi speciali” per considerarne illegale la semplice esistenza. Violenza nei CPT dove sono rinchiusi senza processo, violenza nelle carceri che ne sono pieni, violenza per strada, dove sono perquisiti e fermati in violazione di qualunque stato di diritto.
Violenza è stata quella contro Sandri, contro Cucchi, contro Giuliani, sparati in faccia, uccisi di botte, violentati nella loro dignità di cittadini, più o meno santi, più o meno innocenti.
Violenza è quella che si ripete ad ogni manifestazione, contro manifestanti pacifici, quella che impedisce di passare da una strada anziché da un’altra, quella che impedisce di indire uno sciopero un giorno piuttosto ché in un altro, quello delle manganellate da dietro gli scudi e sotto i caschi, dei volti dei poliziotti infervorati come cani ringhiosi verso gente che ha perso il lavoro, i diritti, spesso la stessa vita.

Ma violenza è anche quella che fa sì che il 90% dei mezzi di comunicazione di massa, quelli che parlano a tutti indistintamente, siano controllati da un unico soggetto. E’ subdola, questa violenza, perché riduce gli avversari allo stato di impotenza, perché li umilia, perché rende vano qualunque sforzo di ribaltare un risultato elettorale. E’ una violenza che si esercita di giorno, quando tutti lavorano, e a casa rimangono le persone più vulnerabili, attraverso trasmissioni di finto intrattenimento.

Violenza è quella di uno stato con la testa a nord e il culo a sud, che costringe centinaia di ragazzi a fuggire dalla connivenza, dall’immobilismo, dalle mafie, dalle raccomandazioni, dalla miseria per arricchiere gli industriali di una zona già ricca e già efficiente.

Violenza è quella di un mercato del lavoro che costruisce giorno dopo giorno la precarietà, che ha dirottato tutti i diritti sui padroni, e i doveri, e la miseria, e le difficoltà sui lavoratori.

Violenza è quella di riforme su riforme che hanno privato un’intera generazione dei diritti elementari, al lavoro, alla previdenza, alla pensione, alle più elmentari protezioni sociali, che li ha spinti ad emigrare, all’estero se possibile, per cercare di costruire un futuro. Un meccanismo antico, pervicace, radicato nella nostra terra dove se non sei brigante sei emigrante.

Violenza è quella di una maggioranza che guarda con fastidio a qualunque organo di garanzia, qualunque contrappeso, che considera il parlamento un bivacco di manipoli, come ottant’anni fa.

Violenza è quella dei conservatori del nostro paese, che con la scusa di conservare l’ordine non hanno esitato a fare esplodere le bombe per le strade, ad uccidere chiunque si frapponesse al suo incedere inarrestabile. Conservatori che hanno partorito i mostri della prima repubblica e l’hanno poi rimpiazzata con la seconda, peggiore, se possibile. Uomini che non accettano di essere soppiantati al potere, che hanno fatto di tutto perché non ci fosse mai alternativa in questo paese immobile.

E allora di che ci meravigliamo? La corda è tesa da tempo. Chi si sente escluso lo è e non vede uscita dal tunnel. Le disparità troppe, i rimedi nessuno.
Chi ha armato la mano di Milano?

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