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5 luglio 2011 § Lascia un commento

TTS è un signore di 43 anni. Eritreo. Vive in Italia dal 1992, è arrivato qui in aereo con un visto turistico. Poi è restato perché innamorato di questa penisola di cui, a casa sua, si favoleggiava. Il padre, scomparso troppro presto e troppo distratto alla famiglia da una seconda donna prima e da un male incurabile poi. TTS, costretto dalle vicissitudini a campare una madre, una sorella e un fratello più piccoli è partito per l’Italia quando già conosceva la pasta, qualche parola di italiano, la guerra e la povertà del suo paese. Mi raccontava che quando c’era la guerra civile contro l’Etiopia il padre comperava sacchi da 50 chili di riso e a casa sua non si mangiava altro permesi: è da allora che il riso non lo sopporta e non lo assaggia, se non per far piacere ai suoi amici ai quali porta un rispetto che gli impedisce, spesso, di dire la verità.

TTS ha iniziato a lavorare da subito: L’Aquila, Pistoia, Roma, dove si è fermato. Giovane, giovanissimo, ha approfittato della sua vita indipendente per divertirsi, arricchirsi un po’, volare di fiore in fiore finché le cose andavano. Ha lavorato da operaio, da magazziniere, da lavatore di auto. Ha vissuto in scantinati un po’ rabberciati e anche ai Parioli, in una di quelle case seminterrate che la classe ricca riserva alla servitù e ai portieri. Però un giorno è arrivata la crisi, per la sua azienda e per sè e le cose hanno iniziato a girare male. Solo in quel momento si è accorto di essere stato fottututo da sempre. Dopo 10 anni di permanenza in Italia, senza essere stato fermato nemmeno una volta dalle forze dell’ordine, si è ritrovato senza lavoro e ha scoperto che chi lo assumeva, al quale aveva dedicato tanta fatica e anche una grossa dose di affetto, lo aveva tenuto in bilico con un contratto stagionale scaduto il quale sarebbe venuta meno anche la copertura del permesso di soggiorno: in 6 mesi.

Per tutto questo TTS non è innocente. Avrebbe dovuto sicuramente salvaguardare meglio i suoi interessi: fidarsi meno. Ma ormai la frittata era fatta. Quando abbiamo saputo questa cosa è iniziata la guerra. Lo abbiamo assunto come nostro “colf”, abbiamo iniziato la sanatoria, abbiamo pagato fior di tasse, prodotto miriadi di documenti per i quali, di volta in volta, erano necessari nuovi bolli e nuovi pagamenti. Abbiamo fatto file infinite e incontrato persone gentili e meno gentili schiacciate anch’esse da una procedura pensata, creata e messa in opera affinché gli immigrati fossero sempre, comunque ricattabili (per un pezzo di carta mancante, per una firma illegibile, per qualunque cazzata). Un tritacarne in piena regola, relegato in sporche periferie e uffici squallidi.

Abbiamo combattuto per un anno e mezzo, supportati dalla buona volontà di tanta gente e dalla solidarietà di tutti. Un popolo, il nosto, sempre in contraddizione con se stesso e con il potere che lo regola. Un popolo che se vede il “negro” in tv lo odia e se lo conosce personalmente è sempre pronto a dire “ma lui è diverso dagli altri”.

Alla fine abbiamo vinto. 1 a 0 per noi. Noi intesi come tanti e tanti che hanno lavorato e speso tempo e denaro per un rettangolo di plastica formato bancomat. Un rettangolo che rappresenta tutto, che, a peso, vale le braccia e le gambe di ciascuno degli immigrati che lo portano in tasca. Che è la cifra di quanto poco siamo disposti a pagare per tutti quelli che ogni mattina puliscono il culo della nostra società. Un rettangolo che è come un pannicello caldo sulla nostra ipocrisia di poveri borghesucci ingrigiti dal benessere.

Eppure TTS ha attraversato il mare per venire qui. Ha fatto un salto, culturale, morale ed economico che nessuno di noi ha mai avuto il coraggio di fare. Solo per questo meriterebbe rispetto: perché ha tante storie da raccontare!

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